LunEAlbe

Il puledro e la sua giovane madre, entrambi dal mantello bianco-sporco, hanno nei movimenti una inusuale grazia imbavagliata che magnetizza l’attenzione ma che non chiarifica.
Anzi, confonde ancor di più; eppure non si può proprio evitare di esserne rapiti.

C’è una scenografica festa allo stadio: un folle circo ed una caleidoscopica giostra di cavalli al centro dell’arena.
In mezzo alla folla festante, la giovane donna è sorretta per entrambe le mani da due giovani uomini proprio niente male che le stanno ai lati come guardie del corpo totalmente inadeguate. Saltano come burattini di legno morbido e cantano ignari…

Vi è qualcosa di sinistro nello sguardo della giovane, di tragico e sgomento.  Il suo è uno sguardo liquido perennemente in bilico fra la terra in autunno ed il verde selva con l’aggiunta di guizzi biondi  – sguardo che proviene da molto lontano, da un altrove che se non ci sei già stato almeno una volta non potrai mai riconoscere, ma che ti inquieta fino alle ossa.  Pare una bambola di pezza apparentemente in-animata che ha sbagliato palcoscenico e gioco.

Sento la voce della bambina e quella della seduttrice, e spesso coincidono.

Continuando a compiacere gli altri si finisce solo per appesantirsi come grossi grassi budini  indigesti, snaturandosi e allontanandosi da Sé.
L’unica vera debolezza è che tutti abbiamo bisogno di qualcuno e di sapere che non siamo  soli.  Nessuno è chiaramente un continente chiuso su se stesso, ma la capacità di saper individuare le sole isole degnamente affini fa la differenza.  E’ un lavorìo lungo una vita, duro e pernicioso come gli impervi sentieri andini, e che spesso gonfia il cuore di dolore dolciastro come sangue fresco rubino.
Così, non ci resta che riconoscere che nel viaggio siamo davvero da soli
anche se non siamo soli.

E annunciare senza alcuna anestesia sulla ripugnante brutta faccia butterata della cattiveria in persona sì stupidamente sudicia e suicida ciò che sinceramente pensi di lei è soltanto la prima conseguenza;   subito dopo ti alzi con necessaria lentezza plateale e te ne vai – passo irlandese – rompendo ogni aspettativa, ogni previsione, ogni schema, ogni regola. Catene inutili e fasulle. Senza nemmeno sbattere la porta. Ecco.
Spada di Giustizia e Verità. Sollievo e liberazione. Ancora una volta, eppure è sempre la prima volta.

La vera creatività è un ampio cenote segreto colmo di sole e acqua freschi, profondi come un pozzo di terramare senza inizio e senza fine.
E’ una creatività che, a tratti, stilla spiragli di luce pura
come un imperturbabile rubinetto che perde random oppure di domenica mattina presto, molto presto.

Sono come mille spilli taglienti questi lampi di sole che filtrano d’improvviso dietro la tenda

bianco-sporco della ampia finestra di campagna, bagliori che inebriano e procurano a sorpresa una seria insolazione. In parte ricordano il Fuoco che nessuno sa o vuole accendere veramente, tranne te, che sai e puoi. Veramente.

Ri-trovarsi finalmente e profondamente soli sopra quel letto a castello di paglia imprestato ai viandanti, mentre al di là nelle altre stanze sono tutti a coppie o a gruppetti da camerata. “Papà, perché io che sono piccola devo dormire da sola, mentre voi che siete grandi dormite insieme nella stessa stanza e vi fate compagnia?!”  – la bambina promettente dimostra fin da subito d’essere interrogativo inopportuno e creatura osservatrice in modo altro, da sempre. Rosea piccola spina fertile nel fianco degli ottusi non-vedenti-non-udenti, ma gratuitamente-starnazzanti.

Il cuscino con effigiati Il Sole da un lato e la Luna dall’altro,
e – mannaggia – è sempre la parte Lunare che lei sceglie senza esitazione, palesando così una chiara e naturale predisposizione notturnoscura e al mismo tiempo una sottile ma ben definita mancanza di equilibrio. Forse,
Come una prolungata e affilata linea che divide in modo netto il colossale e abissale crepaccio – ricorda il canyon, quello grande of course – ma di cui ci si accorge solamente quando si è ormai pericolosamente troppo vicino.

“La Storia Infinita, ricordi? È così, proprio così, in fondo”.  Intorno alla sua testolina   capricciosamente ricciuta di temibili aspidi rilucenti aleggiano la voce e gli indizi che essa rievoca attraverso quella storia.
Fulgidi cuori di Bambini speciali quanto incompresi, unici ambasciatori di quel MondArcano accessibile solamente a pochissimi: ai misteriosi prescelti, agli auto-eletti ricercatori d’azzardo, ai veggenti solitari, agli indomiti enigmi esiliati, a tutte le anime perse e rinnegate, i cosiddetti divergenti moderni.
“Per favore, smettila di tentare di unirti al branco dei Coyote Tremanti, lo capisci che tu non sei come loro e che mai lo sarai?!”  Urla moniti sussurrati la vecchia dalle lunghe trecce bianco-sporco.
“Inevitabilmente loro ti temono, perché loro non sono come te: tu sei un LuPo, IL Predatore, accidenti,
te lo vuoi ficcare in quel teschio duro oppure no?!
Sai, a volte mi ricordi quell’ anatroccolo arruffato e scuro che pensava tanto ingenuamente che la sua famiglia fosse un gregge di stolte e crudeli papere petulanti, che ridere… ma la codardia e l’intelligenza suprema non sono mai andate d’accordo, non te ne sei ancora accorta cara?     
Su, alza il tuo bel musetto all’insù, puntalo verso il nord – specialmente quando è sera fonda e ti è più facile scorgere la Grande Ruota a picco sul cranio celeste – e vedrai finalmente la tua vera famiglia d’appartenenza che si libra regale e maestosa in alto, in alto, sempre più in alto…” 

Ecco che di punto in bianco (-sporco) m’imbatto nel pocopiù(omeno)cheventenne dai capelli  seducentemente indy, dalla bellezza incantevole, selvaggia e – ancora per poco – inconsapevole da commuovermi: assomiglia proprio al musicista di quel film e pure ad un giovane e vigoroso mustang delle praterie.
il suo fresco aroma invitante è talmente irresistibile che gli si può anche perdonare la sua pericolosa arroganza di artista…  hmmmm sono indecisa se mettermi a piangere piano – sogghignando di nascosto come un gatto con la piccola preda che solo temporaneamente ha graziato generosamente, mentre mi limito a fantasticare su ciò che potrebbe –
oppure se papparmelo in un sol sospiro alternando lentissime masticazioni di puro piacere a trangugiate ingorde e fameliche.
Ma, questa volta, so già in anticipo quale sarà la mia scelta.

L’alba e i sogni. Il momento perfetto. Il passaggio segreto privo di mappa. La fessura fra il mondo delle lucciole e quello dei pipistrelli, spazi mai separabili fino in fondo né in sonno né in veglia, universi che si sovrappongono e fondono e confondono: melt into each other’s breathe.
E tutto l’indicibile.

Rinnovamenti ciclici

 

Danzando leggiadra e sinuosa

come un’esperta ballerina

la fresca brezza del Mare porta con sé

sulla terraferma

mille e uno esotici profumi di paesi lontani

che, mescolandosi con quelli più dolci dei fiori tinti di primavera,

sempre ci rinnovano

– tenaci e pazienti come la Vita stessa –

tutte le speranze, i desideri e i sogni

in cui non abbiamo il diritto di smettere

di credere.

 

Visioni in-di quali mondi?

sogni

nodosi cunicoli contorti fra labirintiche radici d’alberi antichissimi

all’interno anacronistiche macchinine di plastica ocra scivolano veloci fra mille palloni multicolori,
un’evanescente fanciulla che vi corre incespicando, spaventata fugge incerta inseguita dall’ombra

quale tu lo sai

.
poi improvvisa

l’attesa di qualcosa che non sai neppure tu veramente

la folla confusa che ti confonde in mezzo ad un turbinio di polvere e caldo afoso;

nell’allontanarti scorgi quasi per caso due ali d’angelo spuntarle dietro la schiena

e perline di lacrime che solcano e liberano le ciglia e le gravosità

.

catapultato ti ritrovi a districarti fra i corridoi tutti uguali dell’hotel senza nome

il via-vai chiassoso e sinistramente ordinato come seguisse misteriose linee immaginarie

la toilette, è sempre quella che cerchi angosciato alla fine!

 

quando meno te lo aspetti

come d’incanto ecco l’incontro-scontro

fuori al sole accecante che non si capisce proprio da dove sia spuntato

visto che fino ad un attimo prima il cielo era incazzoso nero di nubi imbronciate

– o forse continua ad andare e venire come più gli piace, il sole, e tu stancamente distratto non ti accorgi dell’incessante melodia armoniosa sottesa –

 

gli occhi che s’inchiodano e s’intrecciano in uno sguardo senza principio né fine

un leggero bacio quasi sfuggente e tuttavia eternamente tenace

è una ridente farfalla cangiante che si posa,

smarrita solo per gioco;

 

le parole che escono a mo’ di nuvoletta di fumo

stigmatizzate al rallenty congelato oppure inaspettate come un’assordante fucilata:

“E’ il tuo sguardo, sì è quello: la luce che illumina il tuo sguardo fa la differenza,

non dimenticarlo

 

prosegui silenzioso

una tempesta nei pensieri cristallizzati

e la calma dell’oceano prima o dopo quella stessa tempesta nelle mani sapienti

il cuore che respira senza fretta: sta imparando qual è il suo ritmo naturale

 

lasci cadere quello che più non è

con un gesto solenne, semplicemente

e poi leggero metti un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro

e così .. via!

ti ritrovi al feroce galoppo col cappuccio che ti sventaglia e frusta forte sul volto

dall’ampio sogghigno lucente

e la lunga veste che si agita come una bandiera all’arrembaggio

 

il lontano castello

ora è sempre più reale

perfettamente vero e reale nella sua – e tua – Magnificenza.

 

Intuitio à la coque

Il candido evaso

dal cuore crepato

nel sangue ribollente

nuota sinuoso

e insinuante

disegnando sorprendenti e indecifrabili coreografie

fotografate nella tela dell’intuizione creativa

dello sguardo-ponte levatoio

dei torrioni della mente

e delle segrete dell’animo

Racconto archetipico Arancione

Forza di OXOSSI portami nei boschi, dove incontro OXùM il fiume che scorre giù, fino alla Dea IEMANJA’ grazie alla quale tutto viene e tutto va.

Una giovane sirena guizza e gioca spensierata e gioiosa con i suoi fratelli delfini in mezzo alla loro immensa casa, il Grande Oceano. Il cielo turchese è limpido e il sole splende alto.  Inaspettatamente, eccolo diventare scuro e carico di enormi nubi minacciose. Le onde del grande mare si fanno rapidamente grosse e violente come smisurati muri che inghiottiscono tutto ciò che trovano. Terrorizzata, la sirena si tuffa sott’acqua e nuota speditamente come mai nelle profondità marine, con l’agghiacciante sensazione di essere inseguita da qualcosa di terribile. Finalmente raggiunge il profondo fondale e corre a rifugiarsi fra le braccia protettive ed autorevoli di una possente figura femminile: è Iemanjà, la Signora delle Acque Primordiali, colei che genera la vita e colei che la toglie. Si ritrova a piangere disperatamente come una bambina, accoccolata nel suo grembo materno che tutto contiene e, in effetti, incomincia a rimpicciolire davvero fino a diventare realmente una bambina piccola, poi un neonato, poi un feto ed infine una minuscola conchiglia.

Questa piccola, perfetta, meravigliosa conchiglia viene catturata da un vecchio pescatore solitario, che oramai esce in mare aperto soltanto in cerca di tesori dimenticati. Non pesca nient’altro. I pesci da mangiare o da vendere non lo interessano più. Il taciturno pescatore nasconde nella sua umile capanna in riva al mare il piccolo-grande tesoro appena emerso e lo custodisce dentro un Antico Vaso di argilla, nero e ocra. La minuscola conchiglia palpita, si sente eccitata e allo stesso tempo in trappola. Ma il pescatore non la trascura mai, ed ogni sera a mezzanotte la nutre con tre piccole gocce di sangue del suo dito mignolo. Al termine della tredicesima luna, la conchiglia è ormai diventata grande. Una notte, durante un plenilunio fulgente, la conchiglia si osserva partorire sé stessa e, creatura neo-nata, uscire dalla schiuma del mare come in una visione stupefacente.

Non c’è più nessuna capanna né pescatore. Adesso si ritrova sulla spiaggia di un’Isola lontana come una Donna bellissima, fiera, magica. E’ meravigliosamente nuda, ammantata parzialmente da una pelle di foca fatata. Cammina celere con la testa alta, a grandi falcate, con sicurezza e audacia ancestrali. Questa nuova donna flessuosa e sensuale, con gambe poderose e mani sottili, segue l’odore dell’acqua pura, fino a giungere presso una misteriosa cascata nel cuore rigoglioso della foresta dell’isola. Mentre lascia che il fresco getto della Cascata Purificatrice Oxùm accarezzi e rigeneri il suo creativo corpo morbido e accogliente, ecco sopraggiungere una strana creatura a dorso di un energico ippocampo. E’ alto, vigoroso, con la pelle scura, vestito di foglie e pelli, sulla schiena arco e frecce inseparabili. Si riconoscono al primo sguardo. E’ Oxossi il Principe dei boschi, protettore di tutte le creature della Flora e della Fauna. Le anime-gemelle ritrovate celebrano l’incontro astrale con un ricco pasto di frutti dissetanti e pane caldo di sole, abbandonandosi ai piaceri della carne e dello spirito. Poi, insieme, prendendosi per mano, corrono veloci e agili come cervi nobili verso un altro luogo misterioso che li chiama ineluttabilmente.

Giungono in seno ad una tribù dimenticata che vive segretamente da millenni sull’isola, in perfetta sintonia con la lussureggiante Natura circostante. Si siedono al centro di un Cerchio formato da tutti i membri della comunità, in silenzio, come se fossero i protagonisti di un rito antico quanto il tempo. Uno di fronte all’altra, si guardano dritto negli occhi, Maschio e Femmina, completi ed integri nella loro diversità opposta e complementare, come in uno specchio che tutto svela e rivela. Attraverso il loro sguardo puro e la mente leggera si materializza lentamente dal Vuoto in mezzo a loro un terzo elemento magico: un Cuore Rosso-Fuoco circondato da Fiamme d’Oro. Pulsa e sorride e sussurra loro parole segrete questo Cuore intatto e onnisciente. Simultaneamente, come mossi dalla medesima voce, il Maschio e la Femmina integri si avvicinano uno all’altra e si compenetrano in un lungo Abbraccio silenzioso, senza tempo. In quello stesso movimento il Cuore viene inglobato dai loro corpi come essenza ora divenuta inseparabile. Nel medesimo istante l’Uomo e la Donna – come fratello e sorella, come sposo e sposa, come padre e madre, come figlio e figlia – si accorgono della presenza di una imponente figura maschile assisa su di un trono fluttuante sospeso in aria: è il Re della tribù. Un pensiero aleggia per un solo attimo all’interno del cerchio rituale: “Il tuo vero dio è la tua Autorità Interiore”. In quella precisa consapevolezza abbagliante si dissolve fugacemente quanto interamente la figura del Re, come bruma all’alba.  Soltanto ora, il Maschio e la Femmina, strette forti le mani, si alzano all’unisono e vanno verso ogni singolo membro della comunità dicendo a ciascuno che è libero, che ora può seguire il personale destino e realizzarsi seguendo il Cuore, il solo ed unico vero Re. Sempre uniti come un’Anima unica, i due giovani galoppano rapidi e sereni verso le sponde dell’isola, lasciando liberi di fluire al vento i loro lunghi capelli corvini che tutto sentono. Sulla riva si vede sopraggiungere l’antico Vascello della Libertà che li accoglie e li conduce lontano, al largo, attraverso le misteriose rotte della Vita.

Verso l’infinito e Oltre. 

Racconto archetipico Azzurro

Non riusciva nemmeno più a ricordare da quanto tempo si trovasse lì. Rinchiusa fra quelle asfissianti mura cubiche di pietra. Ormai era diventata una giovane donna, anche se per certi aspetti sembrava una vecchia e per altri ancora una bambina. Della bambina conservava le insicurezze e le paure mai consolate e della donna anziana infelice aveva la pelle raggrinzita e la speranza ormai perduta in un futuro inimmaginabile e dunque inesistente.     Se ne stava immobile con lo sguardo fisso nel vuoto per la maggior parte del tempo. Sola e dimenticata. Possibile? Possibile che non ci fosse nessuno che si ricordasse di lei, nessuno che sentisse la sua mancanza, nessuno che la cercasse o si accorgesse della sua assenza invisibile? Tutto sembrava ormai irrimediabilmente perduto. Non riusciva nemmeno a ricordare perché l’avessero imprigionata da un tempo così immemore, e chi fosse il suo carceriere.   E se si fosse immaginata tutto da sola? Se, in realtà, quello fosse un sogno – peggio, un incubo – costruito e recitato da sola, senza altri attori in gioco? No, non poteva essere un tale incubo. La sua mente ormai le giocava brutti scherzi sempre più spesso, era diventata totalmente incontrollabile e inaffidabile. Allora, forse, era meglio morire. D’altronde, in quella condizione, era come fosse già morta.    Si accasciò su se stessa prendendosi il volto pallido fra le mani ruvide, ma il profondo e terribile dolore che le schiacciava il petto non riuscì a palesarsi neppure attraverso un flebile suono, un misero verso oppure un rantolo. Niente. Non le usciva nulla dalle sue labbra rosa. Da anni. Né una vibrazione, né una parola, né una preghiera, né una imprecazione. Non poteva nemmeno piangere: non le scendeva mai neppure una piccola, fragile lacrima liberatoria. Ma che razza di “mostro” era diventata? Che maledizione era mai questa? I suoi pensieri lugubri e le sue emozioni pesanti correvano di qua e di là fuori controllo, come impazzite. Già. Forse era semplicemente pazza, per questo l’aveva rinchiusa. Oppure lo era diventata a furia di rimanere lì, sola e dimenticata dal mondo. Ma tanto, che importanza aveva ora? Si era da tempo rassegnata a quella assurda condizione di non-vita e di non-morte. Comunque, non era più capace di mangiare, di muoversi, di respirare, niente: il corpo e lo spirito giacevano irrigiditi come fosse una statua di marmo, niente scorreva in lei, né il respiro, né il sangue, né la vita. Ma quanto faceva male!

Proprio al culmine di questa disperazione senza fondo, al limite del sopportabile, le parve di scorgere un lieve movimento luminoso accanto al suo viso. Alzò lo sguardo, più stupita che incuriosita, ed ecco che di fronte a lei, appoggiata delicatamente alla spessa parete di pietra, c’era una … libellula! Ma sì, non poteva sbagliarsi, da bambina le vedeva spesso e ci giocava insieme a nascondino anche. Era una grande, radiosa, lucente libellula verde e azzurra. Per una attimo, quella visione raggiante le fece scordare ogni dolore: finalmente non era più l’unica creatura di quel solitario luogo dimenticato da tutti. Si alzò molto lentamente, per il timore di farla scappare e – con un fragile sorriso di meraviglia che accennava timoroso a spuntarle sul viso – si avvicinò con cautela a quella risplendente magia con le ali. La libellula parve aspettarla pazientemente e, non appena i loro occhi furono così vicini da incontrasi, di scatto si sollevò prendendo a svolazzare allegramente per la stanza umida. La giovane, incantata e come ipnotizzata da quel volo sfavillante, prese a seguirla, perdendosi in una lieve danza a due. La ridente libellula la condusse dolcemente davanti alla stretta finestra della prigione: apertura che la giovane evitava da tanto tempo per la paura di perdersi in vane speranze di libertà puntualmente frantumate dalla realtà del suo isolamento. Ma adesso non pensava a niente di tutto ciò, dunque non si accorse nemmeno di trovarsi esattamente al centro dello spiraglio celeste, con la luce del sole che le scaldava il volto che stava riprendendo un leggero colorito.    E lì, come d’incanto, vide stagliato contro il cielo limpido un enorme pavone multicolore! E stava volando proprio nella sua direzione! Sbatté le palpebre un numero infinito di volte per assicurarsi che non stesse sognando, ma quando riaprì con fermezza gli occhi, ecco che l’ultraterrena creatura si trovava in mezzo alla stanza, proprio davanti a lei. Con la sua strabiliante immensa coda aperta come un ventaglio splendente di tutti i colori più belli del mondo. La giovane donna non ebbe nemmeno il tempo di riprendersi dallo stupore, che lo stupefacente pavone inizio a parlare: “Mia cara anima prediletta, non disperare. Sono qui. Non ti ho mai dimenticato. Piuttosto, sei tu che, per un po’, ti sei scordata di guardare verso il Cielo e di chiamarmi. Non ti ricordi più, angelo mio? Se tu non pensi a me e non mi riconosci invocandomi, io non posso mostrarmi a te. Ma ora te ne sei ricordata, tesoro, brava. Hai dovuto affrontare prove durissime, lo so. Ma io ero sempre accanto a te, sai? Anche quando non vedevi, anche quando non ricordavi, anche quando ti sentivi sola e perduta. Tutto ha un senso, niente accade a caso. Niente va perduto, tutto resta dentro ciascuno di noi. Forse hai scelto la strada più difficile, chi può dirlo? Ma ora il tempo della sofferenza è terminato. Adesso può iniziare il tempo della guarigione e della gioia, se vorrai. Dipende da te, scegliere. Sempre. Io posso aiutarti, come ho sempre fatto, fin da quando eri una piccola bimbetta che ne combinava di tutti i colori, straripante di gioia e di vitalità, che svolazzava come una farfallina e si arrampicava dappertutto come una gatto selvatico. Puoi tornare ad essere felice come allora, angelo mio. Ricorda. Vai e recupera la tua Voce! Fammi sentire di nuovo il potere della tua voce, mostrala al mondo, canta la tua Anima tutta, intera e potente come è sempre stata! Canta, bambina mia, mia antica Guerriera dai fiammanti capelli di fuoco, e non smettere mai più!”

A quelle parole di potere, la giovane parve risvegliarsi da un lunghissimo sonno, come liberata da un’antica maledizione. Intatte memorie arcane si risvegliarono in lei e ripresero vita d’improvviso, così come altrettanto repentinamente il cielo si era oscurato ed una terribile tempesta iniziò a infuriare fin nella cella di pietra. Dalla finestra ora si vedevano fluorescenti lampi fiammeggianti saettare per tutto il cielo senza sosta, i tuoni li seguivano come un roboante esercito inarrestabile, e il vento, il più possente e determinato che avesse mai sentito la giovane, penetrò con veemenza nella segreta. Dapprima scompigliò ogni cosa. Poi, con sempre maggior forza, scardinò e ribaltò qualunque realtà incontrasse. Oggetti, membra, pensieri, emozioni. Tutto veniva sconquassato dalle terribili urla del vento liberatorio. Niente veniva risparmiato dalla sua furia impetuosa, dalla sua urgenza incontenibile, dal suo ciclone prorompente. Niente. Tranne la donna, che rimaneva dritta in piedi al centro della stanza, con le vesti e i lunghi capelli che vorticavano furiosamente ovunque, di fronte a lei soltanto il suo ritrovato pavone che le infondeva coraggio fissandola irremovibile. Ma lei teneva gli occhi chiusi. Rimaneva salda, nonostante la tempesta urlante, con una concentrazione e una intensità palpabili. Stava ricordando, stava radunando tutta la sua forza, la sua fermezza, la sua audacia, stava richiamando a sé tutto il suo antico potere. E poi, quasi come se lo slancio del vento che le rombava tutto intorno le avesse dato il “la” in un ben preciso momento, aprì le sue labbra rosa e intonò un canto.

Il suo canto. Che le sgorgava con ardore dalla gola, con un fervore ritrovato che lo caratterizzava: era un canto melodioso, solenne, soprannaturale, soave e allo stesso tempo possente e sonoro, robusto e intenso come il galoppo sincronico di cento cavalli selvaggi lanciati in corsa in una prateria senza confini. Era un canto che non conosceva limiti, udibile in ogni parte del mondo e dello spazio. Senza tempo. Il potere della voce cantata della donna iniziò a manifestarsi attraverso la creazione di tutto ciò che immaginava. Il suo canto incominciò a creare un paradiso di piante meravigliose, di fiori celestiali, di magici animali del bosco. Creò una radura avvolta da alberi maestosi, da laghi sacri, da creature del piccolo popolo che le venivano incontro acclamanti. Sì, perché adesso la giovane donna non si trovava più reclusa nella prigione cubica, bensì al centro di questa rigogliosa radura popolata dalle più affascinanti e autorevoli creature potesse ricordare. E tutte queste creature erano lì per lei. O meglio, erano lì in quanto richiamate dal suo intenso canto prodigioso. La donna aprì gli occhi e si mise a guardare ciò che fino ad un attimo prima stava osservando con l’occhio della mente. Le sue labbra perfette si dispiegarono lentamente, come la più bella delle rose che sboccia, in un regale sorriso colmo di gioia e gratitudine, mentre il suo canto, ora silenzioso, non cessava di sgorgarle dalla gola. Adesso tutti gli animali e le creature che aveva solo un attimo prima immaginato e visto con il terzo occhio erano radunati intorno a lei: colibrì, colombe, aquile, falchi, gazze, civette, api, lepri, scoiattoli, cervi, volpi, orsi, lupi, serpenti, rane, fate, folletti, ecc. Insieme a loro, tutti i fiori, le piante e gli alberi più magnificenti che potesse pensare palpitavano all’unisono fieri della sua presenza e della sua voce. Tutto era un trionfo di luce, colori, scintillio, armonie, tintinnii. Eppure, le sembrava mancasse ancora qualcosa. Nel momento stesso in cui l’intuito guizzò lontano dal pensiero e vicino al cuore, ecco che apparvero. Un numero incalcolabile di sfavillanti farfalle multicolori, di tutte le specie e dimensioni. Quali colori, quale grazia, quali danze, quali canti! Adesso tutto era tornato perfetto, come era all’origine. La giovane si specchiò nello sguardo del pavone – che in tutto ciò le era sempre rimasto accanto – e quello che vide non la meravigliò affatto: una bellissima e valorosa amazzone dallo sguardo fiero e nobile e dal sorriso dolce e odoroso come una viola di primavera. Circondata dalle migliaia delle sue anime sorelle. Questa affascinante e ardimentosa donna gettò indietro la folta chioma sanguigna e trillò in una risata forte e melodiosa. Lunga e liberatoria. Profondamente liberatoria.

Una fresca e leggera brezza venne a solleticarle le guance tonde e vermiglie come quelle di una bimba. Milioni di gocce quasi invisibili di una impalpabile pioggerellina luminosa le baciarono e benedirono gli occhi socchiusi sornionamente. Poi, mossa dalla forza tempestosa che le comandava il petto, si voltò e riprese il suo cammino, intonando un nuovo canto di gratitudine, vitalità e grazia.

E tutte le farfalle variopinte continuarono ad avvolgerla come un magico mantello policromo protettivo e la seguirono danzando senza posa nel suo lungo viaggio. Ma questa è un’altra storia.

 

Racconto archetipico Rosso

Era poco più di una bambina. Anche se aveva uno sguardo serio e attento che tutto osserva che la faceva sembrare molto più grande, e al contempo si portava addosso l’impronta di un’innocenza e di una purezza senza età.
In ogni caso, era spaventata e confusa. Erano diverse ore che vagava sola nel cuore dell’Antica ForestOscura e ormai si stava facendo buio. Il suo inseparabile destriero grigio, con una macchia nera a forma di stella sul muso buono, si stava stancando di continuare a galoppare senza una meta. Che confusione, nella testa e nel cuore. “Decidi tu dove andare, mio fedele amico, perché io proprio non lo so!” pensò, al limite della disperazione, la giovane. E quasi per confermare la sua decisione alla non decisione, con un solo agile movimento si voltò sul dorso del suo destriero e si sedette al contrario, dandogli le spalle e incrociando le braccia al petto. Con quel suo caratteristico broncetto dalla fronte aggrottata e le labbra sigillate all’ingiù che la rendevano ancora più simpatica. Anche nello sconforto vero e profondo. Pronto e rapido come sempre, il destriero rispose con un sol pensiero: “Se ti manca anche solo l’intenzione di guidarmi, io non sono in grado di proseguire, perché non posso trovare la strada senza di te.” Sbuffando irritata dalla solita saggezza che il cavallo mostrava, la ragazzina saltò giù con un balzo da amazzone consumata e mosse qualche passo iroso nel fitto della Foresta. Poi, con un doloroso gemito di bestia ferita, si rassegnò e si lasciò cadere a terra. Lentamente, si trascinò con le unghie aggrappate alla terra umida, fino a sedersi con la schiena appoggiata all’enorme tronco di un’Antica Quercia Centenaria, sacra e maestosa, che incuteva timore, rispetto, dignità, ma anche familiarità. La piccola cercava in qualche modo di riposarsi e di raccogliere i pensieri ammassati come nubi minacciose. Un piccolo Ragno nero, rosso e viola, dalle sottili zampette pelose, scivola sul dorso della sua mano, facendole il solletico …

.
Improvvisamente, le radici dell’albero mi prendono, mi avvolgono e mi trascinano sotto terra. Sono radici oppure artigli affamati quelli che afferrano d’improvviso le mie gambe e mi trascinano giù, sempre più giù, fra i piedi dell’albero, dentro le sue vene, nella sua carne sotterranea, in un nero cunicolo che pare senza fine, un precipizio di terrore, sangue, graffi di memorie sconosciute?
Contemporaneamente, mi sembra di scivolare sempre più in profondità attraverso uno stretto tunnel di terrascura umida, nutriente, sicura, protettiva come il Grande Utero Materno. Al termine della caduta, mi ritrovo in acqua, nelle profondità marine…e mentre nuoto a lungo sott’acqua ora mi sento inspiegabilmente felice e serena come un pesce giocoso, come una sirena ridente. Quando mi sembra di dover metter fuori la testa per riprendere il respiro, ecco che sbuco all’interno di un’ampissima grotta sommersa o forse si tratta di numerosi cenotes concatenati fra loro, come in un antico labirinto segreto. Il cenote in cui mi ritrovo adesso è colmo dei più impensabili tesori e ricchezze di ogni epoca e civiltà. Sento chiaramente la voce della Dea che mi ricorda con calma perentoria di portarli fuori, a galla, in superficie. “Cosa stai aspettando? Porta fuori il Tesoro che è in te…che sei TU!” mi grida con tenerezza e determinazione insieme. Ma io non posso. Sono bloccata, irrigidita, non riesco a muovermi né a respirare. I dubbi, i giudizi e la paura mi sconquassano tutti assieme.     In quello stesso istante, arrivano rapidi come furetti i mostriciattoli voraci, le larve raggrinzite che mi si aggrappano addosso imploranti: urlano, piangono, strepitano. Vogliono me, vogliono la mia resa totale, e non importa il gioco di domanda-risposta che tento di instaurare nell’ennesimo, futile tentativo di patteggiare. Non importa le storie di dolore, mie e loro, passate e/o presenti, vere o presunte. Tutte scuse. Stratagemmi e appigli sempre più scivolosi. Ma io non voglio arrendermi. Non posso. E perché dovrei, poi? Eppure non esiste una risposta, e neppure una domanda, in fondo. Alla fine. Nulla di tutto ciò, nulla e basta. O ti butti o resti. È semplice. E così semplice, davvero…se ci pensi. Oppure se non pensi affatto. Accidenti. Ora sono proprio stufa. Di tutto. Di me, delle battaglie, dei tentennamenti, dei dubbi, dei pretesti di ogni genere. Ora basta nascondersi. Ora basta!
Così decido di buttarmi. Mi lancio, mi lascio andare, mollo ogni presa, lascio tutto. Tutto. Non c’è altro modo, è la sola via possibile. “Quando decidi di buttarti, l’Angelo ti salva”, mi sovviene improvvisamente questo pensiero al quale mi àncoro con fede, per non farmi prendere dalla paura che ancora mi insegue.
Allora mi lascio divorare, tutta intera, e questa volta con convinzione totale. Nonostante lo strazio, ad ogni morso di attaccamento inutile, ad ogni brandello di giudizio strappato, sento crescere sempre di più in me la Forza ed il Coraggio che mi sostengono, sento vibrare sotto la pelle e pulsare nelle vene la certezza della bontà della mia scelta. Quando i mostriciattoli arrivano al mio cuore – il punto cruciale – mi fermo in dubbio, per un attimo. Un battito, un fremito. Poi, mi arriva come in volo una voce angelica: “Cosa te ne fai di un cuore pieno di paura?”. Un altro fremito, questa volta più scardinante. Improvvisamente, mi sento riportata al centro di me da una forza determinata e potente che non conosce esitazioni. Allora, non permetto loro di venirselo a prendere, no. Non glielo concedo riluttante e disperata come se non avessi altra scelta, come se fossi obbligata, come se fosse un dovere. No. Chiamo a raccolta con tutta me stessa la Forza Rossa e l’audacia del Grande Guerriero Ogùn, sfodero la Spada di Potere e dichiaro il mio Intento Supremo che mi libererà: io decido consapevolmente e scelgo di prendere il mio cuore fra le mie mani per offrirlo, volontariamente. Anzi, nel momento stesso in cui lo penso soltanto, mi ritrovo davanti all’enorme Quercia Sacra col mio cuore pulsante sul palmo di mano in segno di offerta, di sacrificio totale e assoluto. Fino in fondo, con tutta me stessa, senza riserve. Ora la paura è sparita, rimango io con tutta la mia risolutezza e fermezza ad essere ciò che sono, così come sono. Nel momento esatto in cui sento questa serena certezza, avverto, per una frazione di secondo, palpitare in mezzo al mio petto, con fervore incontenibile, un Cuore rigenerato.
Dopodiché il nulla, il vuoto, l’oscurità.
Adesso vedo, sento, so: sono un minuscolo seme al centro del grembo della Grande Madre Terra, dalla quale tutto nasce e a cui tutto ritorna. Sono così piccolo…eppure così tenace e luminoso. Risorta come seme, come embrione, come genesi, come principio eterno rigenerante e rinnovatore, ad ogni ciclo, ad ogni battito.
Seme accudito, nutrito e protetto. Amato. Ora e sempre. 

Chissà quanti e quali frutti darà, un giorno, questo potente seme numinoso…” sussurra al mio cuore nuovo la voce di Nanà.

 

Racconto archetipico Giallo

C’era una volta un antico Pozzo, in mezzo ad un dimenticato deserto senza nome. Una voluminosa e solida lastra di pietra sigilla l’apertura del pozzo. Egli sa che lì sotto, proprio dentro al profondo pozzo, c’è la sua Anima. Sa che deve andare a prenderla, ma non è in grado di spostare l’ingombrante pietra: è troppo pesante. Tentenna nel dubbio e nello sconforto: “Forse sarebbe meglio arrendersi subito e rinunciare”, pensa. Ma non è da lui. Avrebbe soltanto bisogno di un piccolo aiuto, di un sostegno, di un conforto, di una pacca sulla spalla, per ritrovare la fiducia smarrita. Allora si ricorda della storia sulla Forza Salda del Cavaliere della GiustAzione Xangò che sta in piedi come una Montagna di Fuoco dal profondo…un enorme Vulcano sopito, ma attivo al tempo stesso. Così si ferma a respirare, chiudendo gli occhi. Lenti respiri profondi e ininterrotti. Va avanti e ci riprova. Il giovane Cavaliere riesce a spostare il lastrone di pietra, mentre un angolo della sua mente riflette solo per un istante che forse non è stato così difficile come pensava, in fondo. La parte più ardua, in verità, era proprio iniziare. Incomincia a scendere cautamente lungo la stretta parete del pozzo. E’ tutto intensamente buio, umido e fatalmente scivoloso. Ha una grande paura di cadere e non sa come fare a proseguire. Pensa che gli servirebbe un aiuto soprannaturale per non precipitare e spiccicarsi per sempre nel lontano fondo del pozzo! Simultaneamente, si ritrova in groppa ad un possente Drago Alato che è volato in suo soccorso, materializzatosi di punto in bianco. E’ il suo poderoso alleato e il suo prezioso compagno di avventura. Con lui ora non sente più l’odore della paura. Insieme scendono giù per il pozzo, una discesa ripida, sempre più oscura e scivolosa, che pare non terminare mai…ma finalmente toccano il suolo. Inaspettatamente, sono atterrati in una ampia Grotta, ricoperta di stalattiti e stalagmiti come una primitiva cattedrale sconosciuta. Al centro, vi è incastonata una pozza d’acqua color ocra, abissale e misteriosa, antica come la notte dei tempi. Coi sensi tutti, il cavaliere vede, sente e percepisce solo acqua e sole, assapora l’umore di terramare e si inebria del calore luminoso che proviene dalla pozza ancestrale. Come ubbidendo ad un comando silenzioso, il suo intrepido drago si tuffa con grazia infinita nel Lago cavernoso, con il cavaliere a cavallo della sua schiena. Nuotano nelle fluide profondità, seguendo e risalendo facilmente il corso del grande Fiume Sotterraneo, caldo come lava d’oro, in cui sono immersi. All’unisono provano una sensazione di benessere liquido fluente, come fossero un sol pesce fiducioso nel suo elemento naturale. Dopo un tempo senza tempo durante il quale si lasciano trasportare dal flusso lavico scorrevole, emergono all’interno di un’altra grotta, ancora più ampia della prima. Qui, nonostante l’oscurità, aguzzando la vista dell’invisibile riescono a scorgere da lontano un imponente Regale Castello medievale ornato da numerose torri, guglie, pinnacoli e bandiere multicolori. La segreta fortezza sembra ergersi ai piedi di una vasta catena montuosa, circondata da secolari foreste oscure. Tutto è come avvolto e offuscato da una nebbia impalpabile, una sorta di fumo biancastro come la bruma del mattino alla prima alba. E’ bellissimo, pare un sogno: il suo Sogno. Non sa perché, ma il cavaliere ha la certezza di sapere che tutto lì dentro giace immobile come il marmo da tempo immemore: ogni singola pianta, animale, persona del castello è addormentata, forse a causa di un fatale incantesimo, di un passato maleficio. L’eroico drago si lancia al galoppo-volo, sempre con il giovane come cavaliere, verso quella visione ammagliante. Quando si avvicinano al castello, si ritrovano intrappolati in mezzo ad un fittissimo ginepraio di grossi rovi ed enormi spine acuminate. In quell’istante, il cavaliere si accorge di impugnare una magnifica spada di straordinario potere: è la Spada di Giustizia & Verità. Con essa, lui ed il suo fedele drago si fanno strada liberandosi degli intricati rovi. Sono veloci, decisi ed abili, tuttavia durante l’intensa bonifica una grossa spina graffia intimamente la guancia sinistra del giovane, facendogli sgorgare copioso Sangue scarlatto. Anziché spaventarsi e bloccarsi, egli d’istinto beve avidamente il suo stesso sangue, dolce e splendente come un rubino prezioso. Ora si sente più determinato e coraggioso che mai e insieme al suo inarrestabile destriero riesce a raggiungere il castello incantato. Qui si trovano di fronte ad un imponente ponte levatoio, ed il castello è circondato e protetto da un profondissimo fossato, brulicante di mastodontici alligatori con scaglie acuminate come lame: sono i guardiani della soglia del reame. A quella spaventosa vista, il cavaliere, improvvisamente affranto, barcolla nell’incertezza, quand’ecco una voce telepatica arrivare dal suo valoroso drago: quelle creature terrificanti non sono loro nemici. Anzi. Immediatamente, li vede allinearsi con precisione e velocità uniche uno dietro l’altro, a formare una lunga scala che dal fossato si solleva contro le prominenti mura del castello fino alla cima, permettendo così ad entrambi di salire lungo i loro dorsi corazzati, luccicanti come smisurati diamanti. Drago e cavaliere raggiungono così il torrione più alto e si ritrovano sulla sua sommità, travolti e scossi da un violento vento impetuoso ed incessante. Socchiudendo gli occhi con resistente tenacia, riescono ad intravedere una Bandiera, la più elevata e maestosa, quella più solenne di tutte le altre. Il suo colore è di un tono purpureo denso e brillante come il medesimo rubino del sangue che scorreva poco prima sulla guancia ferita del cavaliere. Al centro vi è effigiato un regale Cuore D’Oro, circondato da una sottile corona irradiante affilati raggi di sole. Col naso all’insù, il cavaliere tenta di afferrare il senso e la seducente magnificenza di quell’emblema, quand’ecco comparire d’improvviso accanto al vessillo – come una magica apparizione sospesa per aria – un’enorme Freccia Verde fatta di rami e foglie dell’Albero Sacro delle ForestArcane. Naturalmente indica una direzione ben precisa e, naturalmente, il cavaliere ed il suo nobile alleato la seguono prontamente. Essa li conduce nella segreta stanza della torre più inaccessibile, diventata ormai invisibile ai non-degni. Al centro dell’ampia camera, illuminata dalle alte finestre a volta, giace la bella addormentata. E’ dolcemente distesa sul suo candido e immacolato letto: il suo sepolcro ed il suo trono al contempo. Il fidato drago si avvicina con deferenza alla sacrale tomba e lì accanto si blocca chinando il capo; il giovane smonta dalla sua schiena e lentamente fa il giro del talamo fino a ritrovarsi dall’altro lato. Si ferma. Osserva con rispettosa attenzione. Poi, come in un rituale sapientemente padroneggiato in un tempo remoto, incomincia a sciogliere i lacci che tengono legati stretti i piedi della bella dormiente. Di seguito, si dedica ai polsi imprigionati allo stesso modo. Una volta terminato il suo compito di scioglimento, si rivolge al collo della Principessa. Qui non vi trova capestri, bensì una spessa catena di metallo chiusa da un pesante Lucchetto d’Argento. Si sofferma. Osserva di nuovo. Un battito di esitazione. Pacatamente, una lontana consapevolezza gli sussurra di frugare nelle proprie tasche. Immediatamente trova ed estrae una robusta Chiave d’Oro. La solleva con sicurezza, sebbene abbia l’impressione che le sue mani stiano tremando impercettibilmente, almeno un poco. Il cavaliere infila la chiave nella serratura e gira, risoluto.

Libera. Sono libera!

 

Déjà-vu onirico

L’indolente falso padre-maestro della mia anima gemella oscura si trascina da una stanza all’altra; eppure sembra saltellare come un ragazzino dietro i guizzi delle mani e dello sguardo.
Un film – Woody Allen o Almodòvar? – che scorre su onde di tecnologia avanzata che non conosco.
La sua assistente mi offre un bicchiere d’acqua fresca nella cucina della ex-casa della mia famiglia d’origine.
Le mie sorelle si auto-invitano alla festa di non-compleanno del Bianconiglio.
La busta-assegno da parte di Amlet nella mia tasca mi pare cosa naturale e certa. Quasi ovvia. Ho detto quasi.

La stanca rassegnazione, la finta indifferenza, la malcelata presunzione, la futile sufficienza e l’insufficiente curiosità del falso padre-maestro mi scatenano il sottile gioco di seduzione della donna-bambina.
Così, un piccolo, fievole, fragilissimo barlume di una qualche vaga speranza (o si tratta di aspettative-boomerang?) si accende; anche se troppo spesso è barlume inutile nonché doloroso se dipende da altri. Lo so. Non lo sapessi già…

Noto che il figlio ha le medesime curiose espressioni di stizza e lo stesso odore del padre. Anche gli occhi stretti e sottili sono segnale di intrinseca cattiveria, di fatto. Perché la cosa mi stupisce tanto?
Ma, in fondo, so che non sono la benvenuta – perché la cosa non mi sorprende affatto? – e così apro la porta per andarmene, mentre una parte della mia mente si ritrova comunque ad inventare (rapida e creativa in maniera inusuale anche per lui) un nuovo gioco di ruoli perverso. Pericolo. Sono pericolosa.

Piccole perle luccicanti di sudore mi scorrono pesanti dietro la nuca e lungo il petto, all’altezza del cuore, schiacciandolo e opprimendolo.
Tremo e mi cedono le gambe. Oddio. Sto per svenire (se solo sapessi svenire).

Rapidamente quanto improvvisamente, il vicino di casa al di là della porta mi si avvicina per aggredirmi. Così. Tanto per…?
Fulmineamente accovacciata in posizione di difesa-attacco, ruggisco un cupo ringhio e gli assesto una feroce zampata disperata. Mancato. Merda.
Hufff. Le mie mani si contraggono spasmodicamente sul ventre. Il bastardo mi ha colpito con un calcio di gratuito e violento sadismo. Vigliacco.
Immediatamente vedo correre alle sue spalle la prevedibile mogliettina patetica. Che stupida. Davvero troppo prevedibile.
La mia furia, il mio naturale istinto di sopravvivenza e la mia insaziabile sete di Giustizia la spediscono, fin troppo velocemente, in una bara di legno chiaro – stile Ikea.
Giustizia fatta. O vendetta? Talvolta il confine è davvero così labile…beh. ‘fanculo. Peggio per lei. Ah, saper cogliere la differenza che fa la differenza! Peggio per loro dunque.

Porta richiusa a doppia mandata dal falso padre-master che ora mi incolla gli occhi addosso, strabuzzanti ammirazione e incredulità affascinata. Nessuno gli ha mai detto che è maleducazione fissare insistentemente una persona? (Ah, il seducente fascino del potere malefico che esige il controllo, anche su di me!)
Idiota presupponenza, la sua. E comunque è troppo tardi. Sempre troppo tardi. (E, comunque, ha sbagliato anima, lo sa e non lo sa).

Continuo a tremare, confusa e stordita. Leggo nel suo sguardo attrazione e repulsione che se la giocano da un occhio all’altro come ad una partita di tennis. Tic-toc. Tic-tac. Il tempo scorre bloccato.

Continua a fissarmi come fossi un raro animale esotico. Una divertente scimmietta da circo. Un curioso alieno. Un’interessante selvaggia di una dimenticata tribù canadese da studiare. Ora sono nauseata fino allo stremo dalla sua ignorante cecità e dal puzzo della sua paura. Paura di sapere. Paura della verità.
Ma mi sta vedendo davvero? Dubbio instillato. Mi vede ve-ra-me-nte per quella che sono?
Naah. Dubbio svanito.
Sospiro.

Dai miei occhi asciutti – spalancati come finestre in primavera – mi immagino scendere agognate lacrime copiose e purificatrici. Occhi che riflettono immense praterie – lussureggianti boschi – sole fuso – triste conoscenza esperita – lontana consapevolezza. Potere.
Deserto allo zenith, invece.

Blah! Conato di vomito (se almeno potessi vomitare).

Cala il sipario.
Fine primo atto.
Soltanto io posso sentire gli scroscianti applausi di un pubblico inesistente in una platea desolantemente vuota. (E se, invece, fosse colma di presenze sottili in apparentemente silenzioso ascolto?)
Fa lo stesso.
Trionfante e regale mi inchino e ringrazio. Chi, soltanto io – e loro – lo sappiamo. Fiera e grata.

Magia.

Niente bis, grazie.
Sorrido di traverso. Il ghigno che preferisco.
Uscita.

Chiusure e nuove possibilità

Si chiude un altro, ennesimo ciclo. Un anno particolarmente potente a livello collettivo e, naturalmente, individuale. Un anno durante il quale siamo stati tutti chiamati, o meglio, costretti a “darci una svegliata”, ad aprire gli occhi, a vedere un po’ meglio ed oltre i nostri piccoli individualismi. Obbligati a metterci in gioco in un modo o nell’altro. A confrontarci con le nostre paure e le zone d’ombra più oscure, con tutto ciò che abbiamo rifiutato di affrontare, fino ad ora. Non ci è dato scegliere che cosa accadrà, ma di certo è in nostro potere scegliere come comportarci di fronte a ciò che (ci) accade. Rinnegare o maledire questo 2020 – come suggeriscono numerose immagini che girano sul web – trovo che sia un ennesimo atto di de-responsabilizzazione nonché di mancata occasione per tutti noi.  Ringraziamo, piuttosto, anche questo anno in chiusura per tutte le possibilità che ci ha donato, comunque, come la grande opportunità di cogliere in verità ciò che vogliamo, possiamo e dobbiamo cambiare e trasformare nelle nostre vite e, di riflesso, nel mondo. In effetti, il 2020 ci ha dato una bella lezione di umiltà, di cui avevamo bisogno da tempo. Stiamo iniziando a pagare il prezzo di una società basata sui dis-valori di iniquità, diseguaglianza, ingiustizia, violenza, ignoranza, profondissimo disequilibrio a tutti i livelli. Il 2020 ci ha mostrato in tutta la sua cristallina chiarezza la fallacia del nostro antropocentrismo distruttivo da delirio di onnipotenza; ci ha palesato al contrario la nostra presenza terrena così fugace e fragile, nonché la nostra piccolezza e impotenza se ci pensiamo come soli e separati, anziché guardare il quadro generale, riconoscere il sacro cerchio della vita tutta di cui facciamo semplicemente parte. Ci ha offerto la possibilità di ristabilire l’equilibrio naturale che abbiamo spezzato (tra sacro e terreno, tra vita e morte, tra uomo e natura, tra uomo e divino). Questo anno doloroso ci ha insegnato ciò che è veramente importante nella vita, ci ha indicato la necessità impellente di cambiare paradigma sociale e di passare dalla cultura dell’individualismo e dell’egoismo, del predominio e della violenza sulla natura ai valori universali della solidarietà e della fratellanza. Ci ha mostrato quanto siamo collegati gli uni agli altri, quanto possiamo essere formidabili e forti insieme, e che tutto ciò che facciamo si riflette inevitabilmente su ogni parte del pianeta con tutte le sue vitali risorse ed i suoi abitanti (umani e “naturali”).

Invece che continuare a chiedere ed esigere, a pretendere come ci fosse tutto dovuto, perché non iniziare a ringraziare per ciò che siamo e abbiamo? L’atto della sincera gratitudine è di per sé profondamente rivoluzionario e potentemente creativo. Attiva la volontà purificata ed il viaggio verso la reale libertà e compimento/realizzazione dell’anima. Ed essere sinceramente grati per tutto ciò che già abbiamo, nonché per la vita stessa, non significa affatto ignorare difficoltà e problemi di sorta, quanto piuttosto affrontarli in un’ottica diversa, nuova. Che senso ha discettare di spiritualità se poi non siamo in grado di applicare quei valori nel quotidiano del mondo ordinario? Il vero vivere consapevole, al contrario, contempla proprio la capacità di saper portare concretamente gli insegnamenti del piano spirituale/sottile nel mondo materiale/ordinario. Sacralizzare la realtà materica attraverso la materializzazione dello Spirito. Pertanto, iniziamo almeno con lo scegliere di abbandonare sentimenti egoici di ingratitudine e ingordigia per accogliere al loro posto valori umani nobili ed edificanti. E’ una scelta, ed è solo nostra. Non dipende dagli altri né dagli eventi esterni, ma solo dal nostro reale senso di responsabilità, in primis verso la nostra stessa esistenza e ciò che vogliamo farne.

Svelata ogni illusione, ogni menzogna, svelato ogni inganno e falso mito, ogni attaccamento, paura ed identificazione (veli dell’ego quasi sempre indotti e inconsapevoli), ciò che rimane è la Sacra Bellezza/Grazia della Vita. Bellezza/Grazia che è Oltre ogni forma di dualismo. Dualismo assolutamente necessario proprio per l’alchemica operazione di svelamento, personale e universale. Perché la verità è sempre paradossale (due realtà opposte/diverse vere simultaneamente), altrimenti non è verità. Buio e luce. Sofferenza e gioia. Paura e coraggio. Perdite e conquiste. Morti e rinascite. Insieme, indissolubilmente unite. Il simbolo del Tao ne è la suprema immagine archetipica.

Nel processo/istante (si sperimentano entrambi come simultanei) del disvelamento, tutto ciò che resta è, davvero, questa incomprensibile quanto incommensurabile Grazia; e la Gratitudine profonda del cuore emerge come un canto antico inarrestabile . “E’ una follia, non è possibile!” – la mente vacilla, non osa, non comprende. Infatti, il processo del disvelamento non può compiersi attraverso lo strumento della mente razionale, non è il suo campo. E’ solo e soltanto grazie ad uno stato di coscienza altro che cogliamo il dono di vedere Oltre il velo delle illusioni di questo mondo/piano duale.

Ma è esattamente nel viaggio oltre-tomba dentro di sé che si manifesta l’abbagliante verità della vita nella sua disarmante ed assurda semplicità/complessità. Ed allora anche la solitudine è grazia, il bisogno è grazia, la caducità è grazia, la sofferenza è grazia, la prova è grazia, la fragilità è grazia, il vuoto è grazia, la morte è grazia, Tutto, ma proprio tutto ciò che E’, è grazia…che è vita, dono, sacralità, natura, essenza, unità, amore, luce, anima, spirito, che E’ (qualunque nome sentiamo più adatto per noi stessi).

In questa esperienza mistica di profonda connessione con il Tutto, ogni aspetto dell’esistenza ha senso ed è utile da un punto di vista evolutivo universale in un modo che la ragione non è in grado di comprendere. La verità è ciò che è utile ci ricorda il Buddha. Ed ecco il paradosso. Come può la sofferenza e ciò che sperimentiamo come male o danno essere giusto e addirittura essere grazia? Se è vero che il creato è opera divina e sacra, allora ogni esperienza è sacra e divina, comprese le dure prove che ci troviamo ad affrontare. Dipende da quale punto di osservazione guardiamo agli eventi, personali e collettivi. Luce e ombra sono sì distinte, ma non separate. Così, ogni singolo evento e situazione delle nostre vite ha qualità e caratteristiche differenti, ma non sono eventi separati dall’Uno dell’esistenza. Dipende dal livello di consapevolezza col quale li osserviamo e da ciò che ne facciamo. Male (ciò che non è utile/che è distruttivo) e bene (ciò che è utile/che è costruttivo) sono semplicemente due aspetti differenti ma non disgiunti della medesima realtà. Inoltre, la Vita cerca sempre di mantenere l’equilibrio naturale essenziale e dove questo viene spezzato, si muove in direzione di ripristinare questa unione ed equilibrio universali, appunto. L’Unità è la risposta; l’Equilibrio è tutto; il Contesto è imprescindibile; il Modo fa la differenza; la Consapevolezza è vitale.

Ed allora, soltanto in questo particolare ed ineffabile stato di coscienza, nel sacro momento della preghiera (unione estatica con il mio Spirito divino, l’Uno immanente), in cui è possibile cogliere questo splendente quanto terrificante insight (conoscenza diretta e immediata di ordine non concettuale e di un altro piano di percezione della realtà), insight che tutto alleggerisce e fa spiccare il volo verso altezze profondissime, allora non si può far altro che ridere e ridere di gioia e comprensione illuminata che Tutto accoglie, come Donnie Darko nel suo finale risveglio di morte e rinascita. Siamo nel Vuoto mistico dove tutto E’ (possibile) come co-creatori del Tutto di cui siamo parte. Vi siete mai chiesti come mai nei testi mistici e sacri sono così presenti i termini di “gioia” e “sorriso” e “canto” e i concetti di leggerezza, luce e quiete del cuore? Ridere è considerata un’arma divina secondo le filosofie orientali, l’umorismo e la capacità di non prendersi troppo sul serio sono alcune delle tipiche caratteristiche del vero saggio o mistico, di colui che sa perché ha visto Oltre (i veli del mondo terreno).  Solamente chi ha esperito in prima persona questo genere di consapevolezza profonda è in grado di capire fino in fondo ciò di cui stiamo parlando e le sue implicazioni.

Per accorgersi altresì che i vari maestri di ogni epoca (quelli autentici naturalmente) sono (stati) necessari per comprendere che non abbiamo (più) bisogno di maestri, perché l’unico vero maestro è la voce della mia Anima che è anche l‘Anima Mundi. Lo Spirito è la medesima scintilla che tutto accende, la fiamma è la singola Anima che si manifesta nell’unicità condivisa del Vuoto pieno di tutto ciò che E’, il Tutto olografico della creazione co-creata.  Comprendiamo allora che abbiamo bisogno anche della sofferenza per la nostra evoluzione, ma, allo stesso tempo, che forse non è (sempre) necessaria. Perlomeno può non esserlo, se ci risvegliamo dal lungo sonno cieco senza sogni che chiamiamo “civiltà” con tutti i suoi inganni. Una inciviltà che mistifica l’esistenza dell’Anima, che deride la forza del Cuore, che nega la sacralità dell’esistenza in ogni sua manifestazione proprio attraverso la brutale de-sacralizzazione di ogni singolo aspetto dell’umano e della vita sulla Terra. Per poi, ipocritamente, propinare religioni e teorie scientifiche di ogni genere e dogmismo (de-sacralizzate, appunto) come forme di controllo e manipolazione collettiva, deprivando l’individuo lentamente ma inesorabilmente di ogni forma di vera libertà e auto-coscienza. Non dimentichiamoci che Libertà equivale a Responsabilità. 

E noi, che ruolo abbiamo in tutto ciò? Continuiamo a delegare la responsabilità della nostra vita a chi esattamente, e in nome di quale mancanza di coraggio e di comodità apparente? Certo, è più facile non prendere decisioni e non scegliere da che parte stare, lasciare che siano altri a decidere per noi, per poi essere anche convinti di essere liberi, magari perché possiamo acquistare “liberamente” ciò che pensiamo di volere, ad esempio (quando il lavaggio del cervello di massa ci ha già spinto a comprare qualcosa che non abbiamo mai veramente scelto autonomamente). Ma guai a pensarlo, figurarsi a dirlo. Siamo tutti liberi e intelligenti e preparati, certo. “A me no, non può capitare. Io sono migliore, io sono diverso”. E lo dimostriamo tutti i giorni quando ci chiudiamo nel nostro misero piccolo orticello di erbacce, voltandoci dall’altra parte, facendo finta di non vedere e non facendo nulla di utile e costruttivo per un bene collettivo più ampio. E’ più comodo, invece, puntare il dito all’esterno e giudicare continuamente gli altri, accusandoci l’un l’altro con tale facilità e consumandoci nell’infinita lagna delle lamentose lamentele sugli altri e su questo mondo così brutto e cattivo (che intanto abbiamo contribuito a creare con il nostro egoismo vanesio). Tutto ha un prezzo da pagare, tutto. Quanto siamo disposti a pagare per questa fatale de-responsabilizzazione delle nostre vite e delle nostre scelte?

Creiamo e possiamo vedere solo quella porzione di realtà che siamo in grado di accettare e comprendere. Ed è, anche questa, una scelta, così come lo sono la paura e la sofferenza, in qualche modo. In tal senso, facciamo ciò che possiamo, in base a dove ci troviamo a livello evolutivo delle nostre anime. Siamo ciò che siamo. E possiamo ciò che siamo. Eppure, allo stesso tempo (di nuovo il paradosso), possiamo fare di più ed essere migliori di ciò che siamo.  Questo il viaggio evolutivo della coscienza, viaggio individuale e collettivo insieme.  Probabilmente non è per tutti, ma solo per coloro i quali la cui anima è pronta e “per chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere”.

“Quando la tua Anima è pronta, lo sono anche le cose” (W. Shakespeare).

E tu, quale contributo vuoi lasciare in questo folle mondo, qual è la tua parte in questo grande gioco, quale testimonianza della tua vita vuoi lasciare a imperitura memoria del tuo passaggio qui?

Che sia Luce, Gioia, Leggerezza, Gratitudine e Grazia nonostante tutto, anzi proprio sopra a tutto, ché queste sono armi dei veri Guerrieri del risveglio – e che sia un vero, rinnovato inizio. Dipende da ciascuno di noi. Nessuno escluso.

“SII IL CAMBIAMENTO CHE VUOI VEDERE NEL MONDO” (GANDHI)

Non esiste alcuna risposta né verità assoluta né via predeterminata. Che ciascuna Anima compia il proprio viaggio e trovi la propria risposta, verità, via. Buon Viaggio del risveglio!