L’indolente falso padre-maestro della mia anima gemella oscura si trascina da una stanza all’altra; eppure sembra saltellare come un ragazzino dietro i guizzi delle mani e dello sguardo.
Un film – Woody Allen o Almodòvar? – che scorre su onde di tecnologia avanzata che non conosco.
La sua assistente mi offre un bicchiere d’acqua fresca nella cucina della ex-casa della mia famiglia d’origine.
Le mie sorelle si auto-invitano alla festa di non-compleanno del Bianconiglio.
La busta-assegno da parte di Amlet nella mia tasca mi pare cosa naturale e certa. Quasi ovvia. Ho detto quasi.
La stanca rassegnazione, la finta indifferenza, la malcelata presunzione, la futile sufficienza e l’insufficiente curiosità del falso padre-maestro mi scatenano il sottile gioco di seduzione della donna-bambina.
Così, un piccolo, fievole, fragilissimo barlume di una qualche vaga speranza (o si tratta di aspettative-boomerang?) si accende; anche se troppo spesso è barlume inutile nonché doloroso se dipende da altri. Lo so. Non lo sapessi già…
Noto che il figlio ha le medesime curiose espressioni di stizza e lo stesso odore del padre. Anche gli occhi stretti e sottili sono segnale di intrinseca cattiveria, di fatto. Perché la cosa mi stupisce tanto?
Ma, in fondo, so che non sono la benvenuta – perché la cosa non mi sorprende affatto? – e così apro la porta per andarmene, mentre una parte della mia mente si ritrova comunque ad inventare (rapida e creativa in maniera inusuale anche per lui) un nuovo gioco di ruoli perverso. Pericolo. Sono pericolosa.
Piccole perle luccicanti di sudore mi scorrono pesanti dietro la nuca e lungo il petto, all’altezza del cuore, schiacciandolo e opprimendolo.
Tremo e mi cedono le gambe. Oddio. Sto per svenire (se solo sapessi svenire).
Rapidamente quanto improvvisamente, il vicino di casa al di là della porta mi si avvicina per aggredirmi. Così. Tanto per…?
Fulmineamente accovacciata in posizione di difesa-attacco, ruggisco un cupo ringhio e gli assesto una feroce zampata disperata. Mancato. Merda.
Hufff. Le mie mani si contraggono spasmodicamente sul ventre. Il bastardo mi ha colpito con un calcio di gratuito e violento sadismo. Vigliacco.
Immediatamente vedo correre alle sue spalle la prevedibile mogliettina patetica. Che stupida. Davvero troppo prevedibile.
La mia furia, il mio naturale istinto di sopravvivenza e la mia insaziabile sete di Giustizia la spediscono, fin troppo velocemente, in una bara di legno chiaro – stile Ikea.
Giustizia fatta. O vendetta? Talvolta il confine è davvero così labile…beh. ‘fanculo. Peggio per lei. Ah, saper cogliere la differenza che fa la differenza! Peggio per loro dunque.
Porta richiusa a doppia mandata dal falso padre-master che ora mi incolla gli occhi addosso, strabuzzanti ammirazione e incredulità affascinata. Nessuno gli ha mai detto che è maleducazione fissare insistentemente una persona? (Ah, il seducente fascino del potere malefico che esige il controllo, anche su di me!)
Idiota presupponenza, la sua. E comunque è troppo tardi. Sempre troppo tardi. (E, comunque, ha sbagliato anima, lo sa e non lo sa).
Continuo a tremare, confusa e stordita. Leggo nel suo sguardo attrazione e repulsione che se la giocano da un occhio all’altro come ad una partita di tennis. Tic-toc. Tic-tac. Il tempo scorre bloccato.
Continua a fissarmi come fossi un raro animale esotico. Una divertente scimmietta da circo. Un curioso alieno. Un’interessante selvaggia di una dimenticata tribù canadese da studiare. Ora sono nauseata fino allo stremo dalla sua ignorante cecità e dal puzzo della sua paura. Paura di sapere. Paura della verità.
Ma mi sta vedendo davvero? Dubbio instillato. Mi vede ve-ra-me-nte per quella che sono?
Naah. Dubbio svanito.
Sospiro.
Dai miei occhi asciutti – spalancati come finestre in primavera – mi immagino scendere agognate lacrime copiose e purificatrici. Occhi che riflettono immense praterie – lussureggianti boschi – sole fuso – triste conoscenza esperita – lontana consapevolezza. Potere.
Deserto allo zenith, invece.
Blah! Conato di vomito (se almeno potessi vomitare).
Cala il sipario.
Fine primo atto.
Soltanto io posso sentire gli scroscianti applausi di un pubblico inesistente in una platea desolantemente vuota. (E se, invece, fosse colma di presenze sottili in apparentemente silenzioso ascolto?)
Fa lo stesso.
Trionfante e regale mi inchino e ringrazio. Chi, soltanto io – e loro – lo sappiamo. Fiera e grata.
Magia.
Niente bis, grazie.
Sorrido di traverso. Il ghigno che preferisco.
Uscita.